lunedì 29 settembre 2014

Arte e Follia nel cuore della Sicilia

Siamo nel cuore della Sicilia occidentale, in una rovente giornata di fine settembre.

Per arrivare a Gibellina attraversiamo strade deserte e assolate, campagne bruciate dal sole dove il giallo delle stoppie è interrotto soltanto da qualche solitario fiore di agave e dai colori sgargianti dei fichi d’india carichi di frutti. Lo scirocco porta con sé un caldo denso, carico di umidità.

È praticamente impossibile preparare qualcuno alla visita che ci aspetta. Sono luoghi esclusi dai classici itinerari turistici e spesso neanche gli autisti dei pulmann, pur essendo siciliani, sanno dove stiamo andando. Ma soprattutto non capiscono perchè ci andiamo…

La vista che compare è un vero e proprio pugno nello stomaco. Una collina ricoperta di cemento. 

La campagna della Valle del Belìce.

Ma non si tratta del solito cemento figlio dell'abusivismo edilizio. è un cemento "artistico".
Un “sudario” ha ricoperto le rovine devastate da un terribile terremoto che, nella notte del 14 gennaio 1968, ha letteralmente cancellato dalla faccia della terra 5 paesi, ha tolto la vita a 400 persone e ne ha lasciate 70000 senza una casa.

Il Grande Cretto di Alberto Burri,


L’autore dell’opera è Alberto Burri, un artista che di certo conosce bene il dolore. Un uomo che ha scoperto la pittura a seguito di una tragica esperienza di vita. Iniziò infatti a dipingere nel campo di prigionia dove fu portato dopo essere stato catturato dagli inglesi in Tunisia durante la Seconda Guerra Mondiale.

Tra il 1985 e il 1989 eseguì l’opera chiamata il Grande Cretto su commissione dell’allora sindaco del paese, Ludovico Corrao. La politica aveva deciso, con buona pace degli abitanti che ancora piangevano i loro morti e le loro case. 
Il paese “vecchio” sarebbe stato ricoperto da 95000 metri quadrati di cemento e trasformato in una delle opere di arte contemporanea più estese del mondo, e il paese “nuovo” sarebbe stato ricostruito a una ventina di chilometri di distanza dalla sede originaria.

Camminiamo sgomenti per le vie fatte di cemento e silenzio. Ognuno perso nei suoi pensieri.

Le vie che solcano il Grande Cretto.


Una ruspa arranca nella canicola del giorno. 
In vista del centenario della nascita di Burri l’opera sta per essere completata con l’aggiunta dei 30000 metri quadrati che mancavano. 
Nessuno di noi trova le parole e forse neanche i pensieri per esprimere quello che vede, e in ogni caso non sono le classiche reazioni davanti a un monumento. Un cane ci precede, felice di vedere qualche faccia nuova.

Riprendiamo la strada e ci spostiamo a Gibellina Nuova. Anche qui la ricostruzione fu affidata ad artisti del calibro di Pomodoro, Melotti, Consagra, Quaroni, Schifano, Cascella, Paladino e Staccioli, praticamente il gotha dell'arte contemporanea italiana.

A dispetto delle buone intenzioni le conseguenze culturali e antropologiche del progetto furono devastanti, e di fronte ad esse le conseguenze “artistiche” non potevano che passare in secondo piano.

Anche qui regna il deserto e il silenzio. Qualche sguardo da dietro una tenda, qualche rara macchina e qualche cane che ci segue. Il paesaggio è surreale.

La piazza di Gibellina Nuova.


Anche la chiesa è chiusa. Un cartello attaccato alla porta dice che sono andati a Lourdes. Ma chi? Una delegazione parrocchiale o tutto il paese?


La chiesa di Gibellina Nuova.


Non posso e non voglio entrare nel merito di una storia tutta siciliana che portò alla costruzione di “un agglomerato di utopie”, una storia dalla quale, come scrive Roberto Alajmo, fine osservatore della cultura siciliana, “come spesso succede in Sicilia, da un disastro, il terremoto, è conseguito un disastro ancora maggiore: la ricostruzione”.

Quello che riesco a pensare è che forse, in qualunque altra parte del mondo, questo folle progetto sarebbe diventato un’occasione di rinascita, culturale ed economica. 
Ma non qui purtroppo. 
Non qui dove tutto è lasciato al caso. 
Non qui dove chi ci ha guadagnato, come al solito, è stata la mafia che possedeva i terreni dove il paese è stato ricostruito. 
Non qui dove il dolore non è mai stato elaborato e trasformato in una speranza. 
Non qui dove ancora oggi sembra che niente sia destinato a cambiare, come la profezia del Gattopardo Tomasi di Lampedusa aveva predetto.


L'unica cosa che posso fare è continuare a far conoscere questo posto sospeso nel tempo e nello spazio. Continuare a scioccare i miei compagni di viaggio con qualcosa che è difficile da raccontare ma che forse è ancora più difficile da capire.
Non me ne vogliate. Forse un giorno riuscirò a sciogliere il groviglio di emozioni che mi blocca stomaco, cuore e cervello quando arrivo li, e magari riuscirò a spiegarvelo.



Contributo di Alessandro Fichera


sabato 12 luglio 2014

Medioevo in corso


È una fredda mattina di fine ottobre, l’aria del mattino è tagliente e racconta già di un inverno alle porte. Il vento di tramontana rende il cielo limpido e lo sguardo arriva fino all’orizzonte dove incontra le isole di Montecristo e dell’Elba.
Sopra le nostre teste si staglia un’antica rocca medievale, solitaria e possente. 




Cosa penserà di noi? Di questo sparuto gruppetto di persone che si avviano su per i sentieri nel bosco intenzionati a ricostruire una casa ripercorrendo gesti e saperi di quell’umanità che più di mille anni addietro costruì la Rocca di San Silvestro.


Questi e molti altri i pensieri che mi passano per la testa. L’emozione è fortissima e un sogno si sta trasformando in realtà. Non sento più il freddo. Sento lontano il suono costante delle parole di Dario, il mastro costruttore. Il depositario del “sapere”. Mi parla della calce da spegnere come prima operazione della mattina, di quanto sia pericoloso, si raccomanda di fare molta attenzione e mi ricorda di quando da piccolo iniziò a lavorare con il padre e un cantiere dei “suoi tempi” non era poi troppo diverso dal nostro cantiere medievale.



Il mio sogno. Dopo quindici anni passati a scavare e studiare le architetture medievali di torri, palazzi, chiese e castelli in giro per la Toscana, un Dottorato di ricerca e tanti progetti all’estero, finalmente riesco a trasformare la teoria in pratica. L’idea di costruire una casa come facevano nel Medioevo è diventata realtà. Il progetto si chiama Medioevo in corso ed è nato da una collaborazione tra la società Coopera, di cui faccio parte, e la società Parchi Val di Cornia, che da più venti anni gestisce in maniera esemplare una rete di Musei, Parchi archeologici e Parchi naturalistici nella zona del promontorio di Populonia, in provincia di Livorno.

Il nostro cantiere si trova ai piedi della Rocca, immediatamente fuori dal circuito murario e di solito siamo in tre a lavorare. Dario, la mano e il “sapere”. Un omone alto e robusto, ombroso di carattere ma solo in apparenza, una vita dedicata al lavoro, oggi depositario di un sapere che rischia di scomparire. Poi ci sono io, Alessandro, archeologo specializzato nello studio delle architetture medievali, apprendista e consulente scientifico del progetto, oltre che oggetto delle battute continue del mastro, per la frenesia con la quale prendo appunti e fotografo anche le cose per lui più insignificanti. Di norma c’è anche un terzo aiutante che condivide con noi le fatiche di una giornata di lavoro.

Ma perchè costruire una casa come nel Medioevo? Questa è la domanda che mi sento fare più spesso. Le risposte possibili sono tante. Le ricadute del progetto spaziano dalla valorizzazione alla comunicazione del dato archeologico, alla ricerca scientifica e al restauro archeologico, solo per dirne alcune.

La faticosa vita quotidiana del cantiere, la meticolosa ricostruzione di tutte le operazioni legate a un cantiere edilizio permettono di rispondere a una serie di domande come il solo studio teorico non avrebbe mai potuto fare. Ad oggi ho un’idea molto più chiara delle risorse necessarie (pietra, calce, acqua, legna) per costruire una casa, e posso di conseguenza riuscire a ipotizzare un calcolo non troppo lontano dal vero per la costruzione di un intero castello.

La nostra struttura ricalca il modello di una delle case del castello che risalgono alla ricostruzione del XII secolo, una casa ad un piano solo, di dimensioni pari a 6 x 4 m, con un tetto ad una falda coperto da lastre di pietra.




Come in una “bottega” imparo i passaggi necessari a “spegnere” la calce, a trasformare cioè la calce viva in grassello di calce.




Il grassello sarà poi impastato con sabbia e acqua in un “miscelatore” ricostruito sul modello di quelli portati alla luce durante lo scavo del castello di Donoratico (Castagneto Carducci – LI). Si tratta di vasche scavate nel terreno nelle quali, grazie a un meccanismo in legno, si poteva impastare la calce a ciclo continuo evitando le faticose operazioni manuali. Rivoluzionarie strutture come queste risalgono ad un periodo compreso tra l’VIII e il X secolo e, i pochi esemplari rinvenuti in Europa, corrispondono sempre a cantieri legati a importanti monasteri o palazzi regi, luoghi nei quali circolavano maestranze altamente specializzate.




Imparo a squadrare un concio di pietra con scalpello e mazzuolo, imparo a murare usando solo filo a piombo e livella e la fatica è ripagata ogni sera da un muro che cresce in altezza e che i miei colleghi archeologi troveranno ancora li fra centinaia di anni.



Imparo a costruire un ponteggio in legno e un tetto in lastre di ardesia




Imparo che la trasmissione dei saperi è un percorso che nasce dall’osservazione dei gesti, dall’imitazione degli stessi e capisco il significato dell’adagio “rubare il mestiere con gli occhi”.


Un cantiere medievale è una sfida al tempo, è un gioco con l’eternità, e solo adesso riesco a capirlo davvero e solo adesso potrò imparare a raccontarlo.



Contributo di Alessandro Fichera

domenica 15 giugno 2014

L'isola che non c'è

Di certo avrete sentito raccontare affascinanti storie di corsari e pirati e leggende misteriose ambientate in Maremma, ma forse non avete mai sentito parlare dell'isola che non c'è, o almeno, che non c'è più...

Verso la metà del 1500, un fiammingo di nome Gehrard Kremer, meglio noto come Gerardo Mercatore, che di mestiere faceva il matematico, l'astronomo e il cartografo, realizzava una mappa delle coste della Maremma, inserendo un dettaglio a dir poco singolare.

Tra l'isola del Giglio e l'isola di Giannutri, si nota un piccolo isolotto chiamato Zanera, di cui oggi non resta più traccia.




Mappa delle coste maremmane di Gerardo Mercatore, XVI secolo.


L'isola continua a comparire nelle carte per tutto il XVII secolo, salvo sparire nel nulla a partire dal XVIII secolo.
Il nome di Zanera rimane troppo spesso legato, e confuso forse, con l'isola dell'Asinara, in Sardegna, chiamata così dallo stesso Mercatore.
Isola nella quale la tradizione vuole che sbarcò il vescovo Mamiliano, in fuga dalla Sicilia o dall'Africa, prima di approdare nell'altrettanto misteriosa isola di Monte Giove, da lui ribattezzata Montecristo.


Isola di Montecristo.


Si tratta solo di una "svista" del nostro geografo, o forse alla fine della storia un piccolo fondo di verità c'è?
Forse non lo sapremo mai e forse non avrà più importanza....
Resta solo lo stupore per una tal concentrazione di storie e leggende che ancora sopravvivono nei mari e nelle isole della nostra Maremma...



Bibliografia di riferimento:
I corsari e la Maremma. Storie e leggende delle incursioni barbaresche. a cura di Massimo de Benetti e Piergiorgio Zotti. Disegni di Massimiliano Longo. 



Contributo di  Alessandro Fichera

venerdì 30 maggio 2014

Venere e le sue sette perle nel Parco dell'Arcipelago toscano


Mancava ancora qualche anno al viaggio che avrebbe portato Cristoforo Colombo alla scoperta di nuovi mondi e nel frattempo, dalle parti di Firenze, Sandro Botticelli dava gli ultimi ritocchi a quello che sarebbe diventato un ideale di bellezza femminile: Venere che nasce, già donna, dalla spuma del mare.

Nascita di Venere. Sandro Botticelli, 1482-1485 circa.

Afròs è la spuma del mare e infatti in greco la nostra dea si chiama Afrodite e incarna gli ideali di amore, bellezza e fertilità. Gli scenari di questi racconti si collocano tra l’Olimpo e il mare di Cipro ma un’altra versione della leggenda ci riporta alle coste della Toscana.

Pare infatti che la dea, uscendo dalle acque e cercando di riallacciare la collana di perle che le aveva offerto Paride, fece cadere le 7 perle di cui era composta nel mare. Quelle stesse perle si trasformarono poi nelle 7 isole dell’arcipelago toscano
Da nord a sud sono Gorgona, Capraia, l’Elba, Pianosa, Montecristo, il Giglio e Giannutri. Ognuna di loro avrebbe tante di quelle storie da raccontare che non basterebbe un fiume di inchiostro. Ma oggi ne ho scelta una in particolare. Forse perchè fra qualche giorno ci ritorno e spero che anche al gruppo che accompagnerò farà lo stesso effetto che fa a me, ogni volta che metto piede sulla banchina del suo porto.

Il nome greco della nostra isola era Aegilion mikros, e cioè capra minore, per distinguerla da Capraia. Il nome fu poi latinizzato in Igilium, per divenire oggi l’isola del Giglio.

L'isola del Giglio all'orizzonte.

Un grosso scoglio di granito battuto dai venti che incrostano di salmastro le possenti mura del Castello

"Aie" di granito nel sentiero che porta al Castello.

Lo sguardo si perde dietro il volo dei gabbiani, accecati da tutto quel blu, siamo al confine tra mare, cielo e terra e l’isola si regala al nostro sguardo bella come solo una delle perle di Venere può essere.


La storia delle genti che la occuparono è lunga e si intreccia con il cammino degli artigiani etruschi, interessati forse alle miniere di ferro e rame della Punta di Mezzo Franco, si lega a quella della nobile famiglia romana dei Domitii Enobarbi, commercianti e argentieri, cioè prestatori di denaro, che diedero anche il nome all'Argentario. A questa famiglia si deve la costruzione di quel sistema di ville e peschiere i cui resti possiamo oggi visitare a Giglio Porto, a Giannutri e a Porto Santo Stefano.
Sono passati da qui gli Aldobrandeschi, i principi di Maremma, le navi della Repubblica di Pisa, le truppe spagnole di Alfonso d'Aragona.



Mappa del Giglio. Genio militare lorenese, 1739-1749.


Ma si tratta sempre di una storia intrecciata alla leggenda, dai tratti mitici legati a una qualche forma di resistenza.

Resistenza "allo nero periglio che vien da lo mare...", le incursioni corsare che sempre hanno battuto queste coste, fino a quella, la più tragica, che portò in una notte del 1544 il temutissimo Ariodeno Barbarossa, corsaro al servizio del sultano Solimano di Costantinopoli,  a devastare l'isola e a deportare come schiavi i 700 abitanti.

Resistenza ai venti che battono l'isola, alla poca terra difficile da dominare e da coltivare, all'acqua che su una piccola isola non è mai abbastanza.

Dopo essere entrata a far parte del Granducato di Toscana, alla metà del 1500, l'isola fu nuovamente fortificata per volere della famiglia de' Medici, interessata a debellare il fenomeno delle incursioni piratesche.
Il Castello fu circondato da una nuova e possente cinta muraria, con una triplice porta di accesso fortificata e un sistema di torri a protezione del borgo.

Porta di accesso al Castello.

Passeggiare oggi nel borgo, perdersi tra gli stretti vicoli e uscire dalle mura per vivere l'emozione di scoprire un sentiero che ci porta sul crinale, in mezzo a una macchia di colorato cisto, di polverosa erica, di odoroso mirto, incrociare un vigneto a terrazze e finalmente raggiungere un'osteria per godere del calore di un buon bicchiere di Ansonaco è un'esperienza che difficilmente le sole parole potranno raccontare.

Per tutto il resto...il traghetto parte da Porto Santo Stefano...


p.s.
c'è una chiesetta nascosta tra le mura del castello che custodisce storie di papi, di un santo che ha sconfitto un drago e le scimitarre di un ultimo assalto fallito, ma questa ve la racconterò la prossima volta.

Contributo di  Alessandro Fichera


martedì 22 aprile 2014

Ugolino della Gherardesca e la Torre di Donoratico

....la bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto...

inizia così uno dei canti più celebri e cruenti della Divina Commedia di Dante Alighieri dove, nel XXXIII canto dell'Inferno, si narra la triste storia di Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico ed esponente di spicco della fazione ghibellina nella Toscana del Duecento. 


Una delle splendide incisioni di Gustave Dorè.

Le intricate vicende politiche legate al controllo della città di Pisa avevano portato l'Arcivescovo Ruggieri a imprigionare Ugolino, assieme a due figli e due nipoti, in quella che da quel momento prese il nome di Torre della Fame, per lasciarli morire.

Uno dei castelli più noti per essere legati al nome della famiglia Della Gherardesca è sicuramente la Torre di Donoratico, situata a pochi chilometri da Castagneto Carducci, in provincia di Livorno.


Le torri che ancora oggi svettano sulla collina del castello di Donoratico.

Gli scavi archeologici che il Dipartimento di Archeologia dell'Università di Siena ha portato avanti tra il 2000 e il 2010 hanno portato alla luce una complessa realtà insediativa che affonda le sue radici nel IV secolo avanti Cristo, quando sulla collina esisteva una fortezza per il controllo del litorale costiero. Si conservano importanti testimonianze anche in relazione alla fase di occupazione romana prima e altomedievale poi, quando il castello era legato alla monastero di San Pietro in Palazzuolo, nei pressi di Monteverdi Marittimo.

In epoca altomedievale gli scavi archeologici hanno mostrato come il villaggio fosse ancora composto da capanne di legno, prima di essere trasformato in un castello di pietra, attorno al X secolo d.C.

Del castello in pietra restano oggi imponenti e monumentali evidenze, come la cinta muraria, una delle porte di accesso e la particolare chiesa con due absidi che si trova nella parte signorile. 


Porta delle mura di cinta che guarda verso Castagneto Carducci.

Tra la fine del XV e il XVI secolo il castello fu abbandonato e destinato a scomparire tra i lecci che ancora oggi lo avvolgono e lo rendono un luogo affascinante e misterioso.

Il 25 Aprile 2014, in occasione della Festa della Liberazione, gli archeologi e le guide di Coopera vi guideranno alla scoperta delle infinite meraviglie che 10 anni di indagini archeologiche hanno riportato alla luce.

Vi aspettiamo!


Contributo di  Alessandro Fichera

lunedì 7 aprile 2014

Il nuovo Museo di Suvereto


Ieri, 5 aprile 2014, è stato inaugurato il complesso della Rocca di Suvereto, uno dei borghi che vanta la Bandiera Arancione nel cuore della Val di Cornia.

La Rocca di Suvereto (LI)


Gli sbandieratori di Suvereto


Volutamente non chiamato Museo ma più semplicemente La Rocca di Suvereto. Storie, scambi e laboratorio di identità.





I progettisti, Giuseppe Bartolini e Simonetta Fiamminghi, al momento del taglio del nastro hanno voluto leggere un brano dello storico Massimo Montanari che per loro racchiude l’essenza e la filosofia di questo “piccolo museo/laboratorio”.

“...la storia ci mostra esattamente il contrario: che le identità culturali non
sono inscritte nel patrimonio genetico di una società, ma si modificano e
si ridefiniscono incessantemente, adattandosi a situazioni sempre nuove
determinate dal contatto con culture e identità diverse. Il confronto con
l’altro consente non solo di misurare, ma di creare la propria diversità.
Le identità pertanto non esistono al di fuori dello scambio, e tutelare
la biodiversità culturale non significa chiudere ciascuna identità in un
guscio, bensì metterle in rete.”
Massimo Montanari, da “Il mondo in cucina”

Il concetto di Laboratorio, piuttosto che di Museo, è interessante. 
Il fatto che si tratti di un piccolo Museo che in sole quattro piccole stanze racconta la storia dell'identità suveretana, ricostruita dal Medioevo fino all’età contemporanea, lo potrebbe avvicinare ancora più proprio a quella cittadinanza alla quale è dedicato. 


La tecnologia del Museo che coinvolge grandi e piccini 

La modernità dell'allestimento mette a disposizione del visitatore una serie di touch screen che permettono di comporre e scorrere il proprio racconto ma che, allo stesso tempo, si integrano con la tradizione dei supporti costituiti da barriques di legno o valigie d'epoca.

La speranza è che sia vissuto come un luogo, ancora una volta, di scambi e di crescita di orgoglio e consapevolezza di una comunità, altrimenti c'è il rischio che vada ad arricchire l'elenco dei piccoli musei sconosciuti e poco vissuti.

Le storie che vi sono raccontate riguardano i fatti più salienti della storia suveretana, il passaggio del corpo dell’imperatore Arrigo VII, le innovazioni portate da Elisa Bonaparte, fino alla tradizione locale dal secolo scorso a oggi. 


Allestimento della sala dedicata a Elisa Bonaparte


Storie di lavoro, di vita vissuta, storie di ordinaria quotidianità della Suvereto di oggi, raccontate da chi ci è sempre vissuto e da chi ha scelto di viverci. Raccontate in video installati sul fondo delle barriques in legno, contributo che i produttori vinicoli della zona hanno voluto offrire alla creazione dell’allestimento

Un percorso coinvolgente che ti rende partecipe e protagonista delle storie. 
Nella sala dedicata a Elisa Bonaparte si trovano vecchie valigie e bauli che riproducono quelli dentro ai quali la principessa aveva portato con se le più grandi innovazioni del suo tempo. Uno schermo touch screen, installato all'interno di una delle valigie, permette di approfondire l'argomento.

Al piano terra si trovano dei modellini della Rocca che molto semplicemente sintetizzano le principali trasformazioni del monumento. Rigorosamente appoggiati sulle eleganti e profumate barriques. 

La sala al piano terra

I modellini che riproducono le trasformazioni della Rocca

Dalla Rocca la vista si spinge fino al mare, con il promontorio di Populonia che si staglia sulla sagoma dell’isola d’Elba. Al tramonto si gode di una vista meravigliosa soprattutto dalle piccole finestre della torre. 
Una passeggiata per i vicoli del borgo di Suvereto e una cena in uno dei numerosi ristoranti la consiglierei a chiunque. Da ieri c'è anche un motivo in più…


Contributo di  Alessandro Fichera


sabato 22 febbraio 2014

Il Museo del Castello e delle Ceramiche Medievali di Piombino


Di recente sono stato a una conferenza del prof. Dall’Ara, presidente dell’Associazione Nazionale Piccoli Musei, che ha affascinato la platea con la sua passione romagnola e il trasporto con cui snocciolava i vantaggi dei “piccoli musei”.
Non si tratta a ben guardare solo di dimensioni e di numeri di visitatori. 
Il “piccolo Museo” non è un “grande Museo” rimpicciolito. È qualcosa di ben diverso. La differenza sostanziale è data da un forte radicamento con il territorio, da un diverso ruolo sociale del Museo e delle storie che al suo interno vengono raccontate, dai rapporti che operatori museali e guide riescono a intrattenere con il pubblico di visitatori e da tanti altri "piccoli" ma fondamentali dettagli.

Ascoltavo l’intervento del prof. Dall’Ara e pensavo all’esperienza che lo scorso anno ha impegnato me i colleghi di Coopera. La fortunata (visti i tempi) operazione di ri-allestimento del Museo del Castello e delle Ceramiche Medievali, ospitato nella prestigiosa sede del castello di Piombino.


Il Castello che ospita il Museo.

Si tratta a tutti gli effetti di un “piccolo museo”, e non credo che riuscirò a parlarne in maniera imparziale, considerato il coinvolgimento emozionale di chi come me e i colleghi impegnati nel progetto, da oltre dieci anni si impegna, attraverso scavi archeologici e pubblicazioni di vario tipo, a scoprire e raccontare la storia di un centro forse poco conosciuto come quello piombinese.
La fama del nome è piuttosto legata alle tristemente note acciaierie, che rappresentano comunque un importante segmento della storia di questa parte di Toscana, e al fatto di essere il punto di imbarco per l’isola d’Elba, prestigiosa località turistica.

Piombino in realtà è molto di più, è un vero scrigno di segreti e meraviglie che ci raccontano le più importanti dinamiche storiche, economiche e sociali di un ampio tratto di costa toscana, dinamiche che vedono probabilmente nella città di Pisa uno dei più importanti attori.

Avreste mai immaginato ad esempio che le origini di Piombino fossero quelle di un castello fondato dai monaci di un monastero, a sua volta legato alla famiglia signorile dei Della Gherardesca?
Il monastero era quello di San Giustiniano di Falesia e la posizione strategica del piccolo centro medievale attirò fin da subito l’interesse della città di Pisa, impegnata in quei secoli a costruirsi il ruolo di Repubblica marinara. Il porto naturale era uno scalo importantissimo per gli scambi che intratteneva con tutto il Mediterraneo e Pisa, nel corso del XIII secolo, investì enormi risorse per la ricostruzione quasi integrale di questo borgo.


Ricostruzione di Piombino nel XIII secolo. Studio grafico Ink Link - Firenze.

Ma torniamo al Museo. Innanzitutto la sede. Il castello già da solo racconta con le sue architetture i segni e le tracce della lunga storia sopra appena accennata. All’inizio del Duecento era una delle porte urbane della città. Divenne nel XV secolo sede del potere della famiglia Appiani, per diventare alla metà del 1500 il cuore della fortezza voluta da Cosimo I de’ Medici. Dalla metà del 1800 divenne infine sede carceraria e, ancora oggi, è possibile visitare le celle e i graffiti che i detenuti incisero sognando l’isola d’Elba all’orizzonte.


Graffiti conservati sulle pareti delle vecchie celle carcerarie.

Questo era solo il contenitore. Il contenuto è qualcosa di unico. Le centinaia di Maioliche arcaiche, una delle prime classi di ceramiche smaltate prodotte a Pisa a partire dal 1200, ritrovate sul tetto della chiesa di Sant’Antimo sopra i Canali, nel vicino porticciolo, sono qualcosa che lascia letteralmente senza parole. 



Alcune delle ceramiche al momento del loro rinvenimento.

E poi? cos'altro?
La bellezza del percorso espositivo che racconta la storia del monumento, del ritrovamento e della produzione di ceramica dalla cruda argilla fino alla bottega del vasaio.


Una delle sale espositive del Museo.

La ricchezza e varietà di forme e decorazioni che ci descrivono nel dettaglio la bellezza di una tavola imbandita nel Medioevo. 



Ricostruzione di una delle sale del Museo.

Perchè è un Museo per grandi e per piccini.



Le trasformazioni del castello raccontate da plastici.

...dove finalmente non c'è scritto "Non toccare", anzi semmai il contrario...



Riproduzioni dei reperti esposti che i visitatori possono toccare. 

Tutto questo è stato raccontato con grande modernità dai progettisti Giuseppe Bartolini e Simonetta Fiamminghi che, attraverso un nastro rosso che percorre tutto il castello, ospitando video, ricostruzioni, immagini e testi, accompagnano il visitatore a una scoperta sensazionale, pari forse per emozione a quelle fatte dagli archeologi dell’Università di Siena, coordinati negli anni dalla prof.ssa Giovanna Bianchi.

In questa passeggiata potrete infine ammirare i progetti e le opere che il genio di Leonardo da Vinci immaginò per Piombino durante i suoi soggiorni nella città, e osservare da vicino le originali teste marmoree provenienti dalla Fonte dei Canali, attribuite alla mano di Nicola Pisano.



Le teste zoomorfe della Fonte dei Canali oggi ospitate al Museo.

Che dire?
È impossibile essere obiettivi davanti a una meraviglia del genere. La speranza è che queste poche parole vi abbiano incuriosito e che la prossima volta che passerete da quelle parti deciderete di vivere questa storia da protagonisti. 
E poi ci direte se abbiamo esagerato…

Il Museo è gestito dalla Società Parchi Val di Cornia
Per maggiori informazioni sugli orari clicca qui.

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Contributo di  Alessandro Fichera